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Un romanzo di formazione: “Scrissi d’arte” di Tommaso Pincio

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di Matteo Moca

Quando Tommaso Pincio aveva vent’anni, ed era appena uscito dall’Accademia di Belle Arti di Roma, non aveva ancora adottato il nome con cui oggi è conosciuto: era semplicemente un giovane innamorato dell’arte che sognava di diventare un artista. Ma quando si rese conto di non possedere il talento necessario per la realizzazione dell’alta ambizione, e non sapendo in cos’altro impegnarsi, decise di passare «senza entusiasmo dall’altra parte della barricata», di divenire così gallerista alle dipendenze di Gian Enzo Sperone, un periodo che lo portò a lavorare a New York, dove comprò una macchina da scrivere e scoprì le «gioie della letteratura».

Anni dopo il ritorno da quel soggiorno da New York, Tommaso Pincio pubblicò, autoprodotto, il suo primo romanzo, M., e iniziò una carriera da scrittore: ultimo romanzo Panorama, pubblicato da NN Editore nello scorso anno, che gli è valso il premio Sinbad. Ma l’inizio della scrittura di Pincio, si situa ben prima della pubblicazione del suo primo romanzo e lo si ritrova negli scritti di critica artistica che compongono una metà del libro Scrissi d’arte, recentemente stampato da L’orma editore. Si tratta solo di una metà (e sull’altra si tornerà tra poco), per quanto non corrisponda ad una metà quantitativa, quanto concettuale, una metà che riporta alla luce vecchi e smarriti cataloghi per mostre scritti da Pincio, stralci della tesi di laurea sulla Transavanguardia e in particolare su Sandro Chia e articoli apparsi su riviste o quotidiani. Non è il caso però, come sottolinea anche l’autore nell’introduzione, di una prematura raccolta di lavori giovanili, quanto di un momento di resa dei conti con quello che c’è stato prima di Tommaso Pincio.

Nelle acute analisi contenute nel suo celebre saggio Il romanzo di formazione, Franco Moretti riassume i caratteri fondamentali di questo tipo di romanzo, muovendosi tra i più importanti autori di un periodo impressionante di fioritura di capolavori. Il suo sforzo si concentra nell’evidenziare i caratteri ricorrenti di queste opere, nel tentativo di riassumerne le caratteristiche e i compiti: così Moretti sottolinea l’importanza della rappresentazione della gioventù, l’inquietudine in essa insita, la crescita intellettuale dei protagonisti e molto altro. L’altra metà del nuovo libro di Pincio consiste in un commento ai vecchi articoli, un commento che però non si limita ad essere una semplice spiegazione, ma che invece costituisce un vero e proprio romanzo che attraverso la descrizione dettagliata, personale e storica, del periodo a cui l’articolo si riferisce, costruisce il portrait of the young man as an artist di cui parla Andrea Cortellessa, curatore del libro e di tutta la collana Fuori formato della casa editrice, nella quarta di copertina.

Questo libro nel libro è ciò che permette di scomodare le caratteristiche studiate da Franco Moretti, perché nei corsivi che precedono gli scritti d’arte, viene fuori una sorta di biografia di Pincio e, soprattutto, il suo passaggio da artista e storico dell’arte a scrittore. Anche il titolo stesso è emblematico da questo punto di vista, e non fa che rendere chiara, attraverso l’uso del passato remoto, la finitezza di un periodo che appartiene ad un periodo trascorso. Eppure, come è normale che sia, si tratta di una barriera assai permeabile innanzitutto perché, e questo è evidente, Pincio già scriveva, ma soprattutto perché si torna al periodo in cui penna e pennello stavano sulla stessa scrivania, prima che quest’ultimo piano piano scivolasse dal piano. Parlando del suo testo dedicato a Luca Buvoli, Pincio chiarisce questo continuo sconfinare da un territorio all’altro, scrivendo «un testo in cui per la prima volta l’arte degli altri diventava un’occasione per raccontare me stesso».

E si tratta anche di un saggio, intitolato in maniera esemplare Not-an-individual (classe 1963 e suoi dintorni), in cui Pincio si concentra sulla sua prima formazione, simile a quella di molti altri nati come lui all’inizio degli anni ’60, che avveniva leggendo le saghe dei supereroi della Marvel, in letture in cui coabitavano narrazione ed immagini.

L’altro importante risultato che questa raccolta persegue, è quello di mostrare uno sguardo altro sull’arte contemporanea italiana, attraverso la visione di chi ha vissuto dall’interno quell’ambiente e che può raccontarne bellezze ma anche difficoltà, amicizie ma anche rivalità congenite nell’essere artisti. A questo proposito è di una rara bellezza lo scrissi dedicato ad Alighiero Boetti, in cui si legge della vita inghiottita dalla tossicodipendenza, della grandezza dell’artista (scrive Pincio: «degli artisti che ho conosciuto negli anni, e ne ho conosciuti tanti, Alighiero era il più grande. M’insegnò tanto senza la pretesa di volermi insegnare niente, com’è dei veri maestri»), della sorprendente vicinanza ad un altro grande artista, Mario Schifano (con una vicinanza che si trasforma in idolatria: «Malgrado parlasse da tossico e avesse un passato da tossico, quella voce non era del tutto la sua. In un certo senso l’aveva rubata. Imitava il modo di parlare di un altro tossico, anche lui artista importante sebbene non così grande quanto Alighiero. Si chiamava Mario Schifano e Alighiero stravedeva per lui») e della sofferenza della malattia. Ma oltre  alle pagine su Boetti, Pincio passa in rassegna gran parte degli artisti più importanti, da Giorgio De Chirico a Stefano Arienti, da André Breton a Vanessa Beecroft, da Jean-Michel Basquiat a Mario Dellavedova.

Ma tra tutti i numerosi artisti che affollano le pagine di questo libro, ce n’è forse uno che più degli altri assume un peso importante all’interno delle scelte di Pincio, della sua crescente consapevolezza dei propri mezzi e della sua scelta di cambiare strada perché, come scrive lui stesso con ironia romanesca, «non c’è trippa per gatti». Questo artista, che torna ad affacciarsi spesso e volentieri in molte pagine, è Marcel Duchamp. L’ideatore del ready-made, il provocatore senza requie, è una sorta di guida all’interno di questo itinerario, un alter-ego chiaramente irraggiungibile ma comunque importante nel lavoro dell’autore su se stesso. Come Duchamp, che dipinse pochissime tele per poi abbandonare la pittura propriamente detta a 25 anni consegnando quella che Octavio Paz definisce “un’opera senza opere”, che vagò tra il pennello e i ready-made fino agli scacchi, di cui era un giocatore mediocre, questo nomadismo intellettuale colpisce anche Pincio che nel momento in cui realizza quella mancanza di talento di cui abbiamo parlato, è costretto a trovare altro, e lo trova in quello che già aveva fatto e stava facendo, nella scrittura, il campo dove si reinventa in fronte ad una incompletezza.

Ma questa continuità comunque presente tra il lavoro di artista e quello di scrittore doveva essere comunque in qualche modo marcata, e questo Scrissi d’arte ci permette di entrare nella officina di Pincio e di vedere come lui ha lavorato in funzione di questa demarcazione. Nella introduzione ad uno degli ultimi scrissi, giustificando l’interesse per un artista a discapito di un altro, amico da molto tempo, Pincio rintraccia in questa preferenza l’eco di un cambiamento, quando scrive che «stava seguitando in quell’opera di autocancellazione che mi avrebbe portato a reinventarmi un nome nuovo».

Questa autocancellazione di cui parla Pincio investe sia appunto la scelta di un nuovo nome, elementare punto di partenza per cancellare il passato e darsi una nuova possibilità, ma anche, ed è quello che qui più ci interessa, una rielaborazione dei testi che compongono questa raccolta. La tentazione da cui è mosso Pincio è quella di fare i conti con la possibilità che si possa scrivere non per dire qualcosa di nuovo, ma per cancellare ciò che è vecchio o altro, e che quindi la scrittura possa divenire una «tabula rasa». Nei testi sono infatti presenti omissis non segnalati e così anche la cancellatura, così come per l’artista Emilio Isgrò, diviene parte integrante del processo creativo e, paradossalmente, uno degli itinerari della scrittura. C’è un testo nel Talmud dove è scritto che i canti si scrivono nero su bianco e bianco su nero, che sono anche i silenzi e le cancellature a parlare laddove si presentano, dando un senso nuovo alla lettura di una pagina scritta. Consapevole della sua maturazione, con un lavoro posteriore sui testi, Pincio sembra tentare di seguire quell’elementarità su cui si concentra Wittgenstein quando consiglia di parlare solo di quello di cui si può parlare e di tacere sull’altro, mostrando i ferri del mestiere e il cammino di un percorso artistico in continuo movimento, muovendo dal credere che «le parole sommerse dicono di più e meglio di quelle salvate».

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